Era nato sotto il sole della Tunisia ottantadue anni fa. E' morto il 21 febbraio sera al Policlinico di Milano, sotto una pioggia battente, mentre a poche centinaia di metri, al "suo" Teatro Piccolo, erano tutti in scena per l'ultima sua fatica "Lehman Trilogy".
L'avevo sentito nominare per la prima volta appena iscritta all'Università: non c'era Internet, non c'era Wikipedia. E non era neanche questione di ignoranza, beninteso. Ronconi lo studiavi sul campo, in scena, forse neanche sui libri.
Luca Ronconi per me, matricolina, era solo un nome e cognome che sentivo associato frequentemente all'aggettivo "immenso", tanto che sulle prime pensavo fosse uno studente particolarmente brillante che bazzicava i corridoi. Col tempo, scoprendo il suo lavoro, ho capito che l'aggettivo non era sufficiente, ma che in qualche modo era davvero uno studente brillante: Ronconi ti insegnava, ma non smetteva mai di imparare.
L'ho poi incontrato nel 2000 a Gargnano sul Garda, dove si teneva la "Settimana del Teatro": per noi studenti era un'occasione imperdibile per incontrare "i grandi" e capire che aria tirava coi professori (e gran parte degli esami verteva su quei 7 giorni pazzeschi). Non c'era solo lui, ovviamente, ma era quello che tutti puntavano, che tutti riconoscevano, non fosse altro per la chioma e la barba di un bianco panna che svettava sugli altri, a dispetto della non eccelsa statura. Eppure, in quei giorni, il massimo che sono riuscita a dirgli è stato "buongiorno", troppo intimorita per rivolgergli domande più "tecniche" che pensavo mi smontasse, così come smontava i testi degli spettacoli che metteva in scena. Lui mi aveva sorriso, mi aveva fatto un cenno con la testa ed era passato oltre. Tanto mi bastava (al tempo).
Le sperimentazioni di Ronconi
Di lui e dei suoi lavori si potrebbe scrivere all'infinito; tuttavia, un mero elenco di titoli non gli renderebbe merito. Quello che va detto, a beneficio dell'immortalità che anche la pagina web gli concede, è che Ronconi ha saputo sperimentare, più di tutti: tra i registi di seconda generazione è stato lui a portare ai massimi livelli la regia critica, cavalcando con ardore quel confine tra classico e la sperimentazione colta, tra scomposizione dei testi, conflittualità degli elementi e rivisitazione dello spazio teatrale, tra scenografie simboliche e reali continuamente ridiscusse.
Il suo primo, grande successo del 1969 ne fu l'esempio: l'Orlando Furioso di Ariosto che ne uscì era un incredibile mix tra antico e moderno, novità assoluta per quegli anni, con il pubblico in sala coinvolto anche grazie a macchinari teatrali a vista. Una crasi tra l'antichissima sacra rappresentazione e un modernissimo happening, con la massa del pubblico in continuo avanti-indietro, spostata dal volere del regista grazie a gabbie e a impalcature.
La figura di riferimento
Un saper osare che in qualche modo gli costò - almeno per un periodo - la periferia rispetto ai teatri stabili italiani, con cui seppe poi riconciliarsi diventando direttore dello Stabile di Torino (dal 1989 al 1994), dello Stabile di Roma (dal 1994 al 1998) per poi approdare al Piccolo di Milano nel 1999, diventandone figura di riferimento accanto a Sergio Escobar.
Ora, se dovessimo immaginarcelo in un ipotetico spettacolo dell'aldilà, probabilmente sarebbe già all'opera per scomporre e ridisegnare anche quegli spazi.